Dis-organizzazioni di successo

Di Alessandro Ingrosso

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Cosa ci raccontano davvero le organizzazioni che prosperano nel disordine

“Può un’azienda avere successo anche se è destrutturata e disorganizzata?”

“La risposta secca è: sì.”

È da qui che parte la conversazione. Una domanda provocatoria che apre una breccia nel muro delle verità aziendali non dette.

Siamo abituati a pensare che organizzazione, metodo e processi siano sinonimo di successo. Eppure, esistono aziende che prosperano nel disordine. Con modelli arcaici, leadership verticali, cultura del sacrificio. E performano. Vendono. Crescono.

Come è possibile? E soprattutto: fino a quando?

 

1. Il paradosso dell’inefficienza redditizia

“Ci sono aziende che producono prodotti e servizi di successo completamente destrutturate e disorganizzate.”

Il fenomeno è più diffuso di quanto crediamo. Un buon prodotto, un mercato favorevole, persone disposte a darsi oltre il limite, e magari un pizzico di posizione dominante… ed ecco che tutto sembra funzionare.

Ma a quale prezzo?

La verità scomoda è che molte organizzazioni funzionano nonostante il loro modello, non grazie ad esso. Il costo rimane spesso invisibile nei bilanci: persone esauste, iniziative improvvisate, crescita non strutturata, incapacità sistemica di evolversi. È come guidare un’auto senza freni: finché la strada è dritta, tutto va bene.

 

2. La trappola dell’eroismo quotidiano

“Io mi ricordo tutti i weekend trascorsi a lavorare. Non mi davo limiti, perché era per una giusta causa.”

L’eroe aziendale è ancora il nostro mito di riferimento. Colui che lavora fino a tardi, risolve emergenze, si annulla per l’obiettivo. Una narrazione potente ma tossica che genera una cultura pericolosa: quella che premia chi rimedia invece di chi previene, chi si sacrifica invece di chi costruisce con equilibrio.

Il problema del contratto scaduto

Questa cultura si regge su un patto implicito ormai obsoleto: “Sacrificati oggi, sarai ricompensato domani.” Ma le nuove generazioni questo contratto non lo firmano più. Non per pigrizia, per lucidità. Hanno capito che il sacrificio senza senso non è dedizione, è autolesionismo organizzativo.

Il burnout non è un effetto collaterale del successo. È il sintomo di un sistema malato che confonde l’intensità con l’efficacia.

 

3. Il mito del leader onnisciente

“Il leader che ha tutte le risposte oggi non è più compatibile con lo scenario attuale.”

Resiste tenacemente l’idea del capo che sa tutto, decide tutto, non sbaglia mai. È la figura del “grande uomo” (e perché mai non “grande donna”?), ancora profondamente radicata nella cultura aziendale italiana.

Ma in un mondo VUCA (volatile, incerto, complesso, ambiguo), questa figura non guida. Paralizza.

Il problema non è solo culturale, è matematico: nessun cervello umano può processare la complessità del business moderno. Chi prova a farlo crea colli di bottiglia decisionali che rallentano tutto il sistema.
“La maggior parte dei manager pensa: questa roba non è per me. È per gli altri.”

E qui sta l’ironia tragica: proprio chi dovrebbe guidare la trasformazione si considera immune dal bisogno di cambiare.

 

4. Dal controllore al coltivatore di potenziale

“Se il team è autonomo… io cosa ci sto a fare?”

La domanda rivela la crisi di identità più profonda del management contemporaneo. La trasformazione più urgente riguarda proprio il ruolo manageriale: da direttore di persone a architetto di contesti.

Il nuovo manager non dice cosa fare, ma facilita il processo:

– Fa le domande che generano riflessioni, invece di dare risposte

– Ascolta per comprendere, non per replicare

– Crea fiducia invece di controlli

– Sviluppa capacità invece di dipendenze

Non è semplice. Richiede abbandonare lo status, rinunciare al micro-management, accettare che il proprio valore non si misura dal numero di decisioni prese ma dalla qualità dei risultati ottenuti dal team.

Ma è l’unica via per restare rilevanti in un mondo che cambia più velocemente delle nostre certezze.

 

5. Micromanagement: quando il controllo tradisce l’insicurezza

“Io conosco le mie persone: se le lascio andare, non lavorano.”

Dietro questa frase si nasconde spesso una verità non detta: il micromanagement raramente nasce dalla sfiducia nel team. Nasce da una crisi di identità del manager stesso.

Quando non sai più quale sia il tuo valore aggiunto, controllare diventa un modo per sentirsi utili. Ma non è leadership, è paura travestita da rigore. E genera un circolo vizioso: più controlli, meno le persone si responsabilizzano. Meno si responsabilizzano, più senti il bisogno di controllarle.

Il paradosso del controllo: più stringi il pugno, più sabbia ti scivola tra le dita.

 

6. Il teatro del cambiamento

“Abbiamo fatto il ponte tibetano… poi siamo tornati in ufficio e tutto è rimasto uguale.”

L’industria della formazione aziendale è piena di interventi ben confezionati, emozionanti, motivazionali. Team building, workshop creativi, percorsi esperienziali che promettono trasformazioni miracolose.

Ma spesso sono solo teatro.

Questi interventi non toccano mai le leve del potere reale: processi decisionali, distribuzione del budget, strutture organizzative, sistemi di incentivazione. Sono esperienze temporanee, non trasformazioni strutturali.

È come ridipingere le pareti di una casa con le fondamenta che cedono: l’effetto è immediato, ma il problema rimane.

 

7. La grande disconnessione generazionale

“Le aziende non riescono a trattenere i giovani perché il sacrificio iniziale non è più un valore.”

Non è vero che “i giovani non hanno voglia di lavorare”. Semplicemente non hanno voglia di lavorare così.

La nuova generazione di lavoratori ha aspettative diverse e non negoziabili:

Senso prima del salario

Autonomia prima dell’autorità

Impatto prima della carriera

Equilibrio prima del sacrificio

Quando non trovano questi elementi, non si rassegnano. Se ne vanno. Non per capriccio, per coerenza.

Chi vuole attrarre e trattenere talento oggi deve smettere di raccontare la favola della gavetta e iniziare a progettare contesti che abbiano significato. Da subito, non dopo anni di paziente sopportazione.

 

8. La maledizione del successo

“Stiamo andando bene. Perché dovremmo cambiare?”

Questa frase è più pericolosa di qualunque crisi. È il sintomo della trappola del privilegio: quando tutto funziona, nessuno vuole mettere a rischio lo status quo.

Ma c’è un problema: nel business, come in natura, chi non si adatta si estingue. E quando arriva la necessità di cambiare, spesso è già troppo tardi.

Le aziende che evolvono sono quelle che coltivano il dubbio anche nei momenti migliori. Quelle che hanno il coraggio di agire prima che sia necessario, non quando è disperato.

 

9. Il punto cieco della leadership

“Ma perché non c’è anche il mio capo qui?”

La trasformazione vera non si realizza se chi guida resta spettatore del processo. È il punto cieco più grande delle iniziative di change management: troppi leader pensano che il cambiamento sia una questione operativa da delegare agli altri.

Ma la cultura si plasma dall’esempio, non dalle slide.

Se non cambiano i comportamenti di chi sta in alto, tutto il resto è solo rumore. È come pretendere che i figli smettano di fumare mentre i genitori continuano a farlo.

 

10. Verso una nuova bussola: la felicità strategica

“Tutto questo ci spinge a continuare… per cercare qualcosa che ci renda felici.”

Il lavoro non può più essere solo un mezzo di sopravvivenza economica. Per le nuove generazioni deve diventare uno spazio dove:

– Si cresce professionalmente e umanamente

– Si appartiene a qualcosa di più grande

– Si costruisce senso e impatto

– Si può anche essere felici

Non è utopia new age, è strategia di business a lungo termine. Perché le persone migliori non restano dove si fa solo carriera. Restano dove vale la pena esserci.

E in un mercato del lavoro sempre più competitivo, la capacità di attrarre e trattenere talento diventa l’ultimo vantaggio competitivo sostenibile.

 

11. Disobbedienza gentile: l’arte del cambiamento dal basso

“Non sei sbagliato. Semplicemente stai vedendo qualcosa che gli altri fanno finta di non vedere.”

Il cambiamento non inizia sempre con un budget o un mandato dall’alto. Spesso inizia con una persona che non accetta più il gioco. Che disobbedisce con grazia, che mette in discussione con lucidità, che costruisce spazi nuovi anche all’interno del sistema esistente.

È quello che possiamo chiamare leadership senza autorità: la capacità di influenzare e trasformare anche quando non hai il potere formale per farlo.

 

Conclusioni: oltre l’eroismo, verso il coraggio sistemico

Il futuro del lavoro non ha bisogno di eroi solitari che si immolano sull’altare della produttività. Ha bisogno di persone coraggiose, consapevoli, capaci di fare un passo in più verso la trasformazione.

Anche se nessuno lo chiede. Anche se non è facile.
Anche se sembra che funzioni già… così com’è.

Perché il “così com’è” di oggi potrebbe essere il “così era” di domani. E quando quel domani arriverà, sarà troppo tardi per iniziare a cambiare.

La vera domanda non è se le dis-organizzazioni possano avere successo. È se possano averlo a lungo, e a quale prezzo umano.

La risposta, questa volta, non è così secca.

Questo articolo nasce da una personale riflessione sui paradossi del lavoro contemporaneo. Se hai riconosciuto la tua organizzazione in queste pagine, non sei sbagliato. Semplicemente stai vedendo qualcosa che molti preferiscono ignorare.

📚 Bibliografia

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Hamel, G. (2007). The Future of Management

Heifetz, R. (1994). Leadership Without Easy Answers

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Kegan, R. & Lahey, L. (2009). Immunity to Change

Kotter, J. (1996). Leading Change

Laloux, F. (2014). Reinventing Organizations

Lencioni, P. (2002). The Five Dysfunctions of a Team

Pink, D. H. (2009). Drive: The Surprising Truth About What Motivates Us

Schein, E. H. (1993, 2010). Organizational Culture and Leadership

Sinek, S. (2009). Start With Why

Taleb, N. N. (2012). Antifragile

Twenge, J. M. (2017). iGen

🌐 Sitografia

Corporate Rebels

Dan Pink – Drive

Gallup Workplace

Harvard Business Review

Start With Why

 

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