Categoria: Definizioni

Di Carlo Gandolfo

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“… e quindi quando sarà conclusa questa attività?”

Eravamo quasi alla fine del meeting, e – immancabile – arrivava la domandaccia.

Fino a qualche anno fa avrei iniziato a rispondere con un “Credo che…”, “Penso che…”, “Se tutto va bene…” mentre già, nella mente degli stakeholder, si formava una seconda domanda: “Quanto mi posso fidare della risposta che sta per darmi?”

La verità è che, in quel contesto complesso, nessuno di noi avrebbe avuto una risposta soddisfacente a nessuna delle due domande. La mia esperienza e il mio intuito erano armi spuntate contro imprevisti e continui cambi di priorità. A meno di miracoli le mie previsioni sarebbero comunque risultate imprecise.

Poi ho incontrato Kanban, e le due risposte hanno iniziato a diventare soddisfacenti.

Senza miracoli, ma con metodo.

La risposta in tre lettere: SLE

Nella Kanban Guide la chiave sta in un acronimo: SLE, Service Level Expectation.

SLE è la previsione probabilistica del tempo necessario per completare un’attività una volta iniziata.

Quando parliamo di completata intendiamo sempre consegnata al cliente.

Una SLE è composta da due parti:

– una durata prevista (es. entro 8 giorni);
– un livello di affidabilità (es. nell’85% dei casi).

Per fare un esempio semplice: “l’85% delle attività simili a questa è stato completato in 8 giorni o meno.”

Importante: non dobbiamo confondere la SLE con il concetto di SLA (Service Level Agreement).

La SLA è un impegno contrattuale; la SLE è un’aspettativa interna basata sui dati e usata per prevedere e migliorare il flusso di lavoro.

Come calcolare una SLE con la massima precisione possibile?

Avendo un minimo di storico, per calcolare una SLE affidabile sono sufficienti 2 misurazioni, 3 grafici e un po’ di metodo.

Partiamo dalle misurazioni: è sufficiente tracciare, per ogni attività, due date:

– il momento di inizio;
– il momento di completamento (o momento attuale, se l’attività è ancora in corso).

La differenza tra queste due date si chiama Cycle Time, ed è una metrica fondamentale.

Cycle Time è il tempo effettivo che un’attività impiega per passare da “iniziata” a “completata”.

Capire e misurare correttamente il Cycle Time è essenziale: sarà il dato grezzo su cui costruiremo analisi, grafici e, alla fine, la nostra previsione SLE.

Grazie a queste misurazioni, potremmo facilmente costruire 3 grafici, che ci aiuteranno a rispondere alle due domande.

Cycle Time Histogram – per aggregare attività omogenee

Il primo grafico è un istogramma che mostra la distribuzione del cycle time delle attività completate: a colpo d’occhio ci racconta quante attività hanno richiesto 1 giorno, quante 2, quante 20.

Leggere correttamente il Cycle Time Histogram ci aiuterà a selezionare attività tra loro omogenee, e puntare la lente di ingrandimento su quelle che non lo sono.

Una buona distribuzione:

– ha la forma simile ad una campana, ma schiacciata a sinistra (left skewed), con un solo picco (moda);
– la curva è schiacciata verso sinistra;
– la coda è corta.

Quali segnali dovrebbero metterci in allarme:

  1. la curva ha più picchi → stiamo probabilmente aggregando attività eterogenee.
    Può essere utile filtrare meglio le attività visualizzate, riducendo l’ampiezza del set esaminato, per identificare un set di dati omogeneo.
  2. la coda è molto lunga → probabilmente ci sono ritardi o eccezioni.
    Dobbiamo comprendere se le attività con tempi fuori scala (outlier) lo sono a causa di situazioni eccezionali o di problemi strutturali, annotare le considerazioni e portarle nella prossima retro.

Dobbiamo continuare a procedere nell’analisi e filtraggio fino a che non abbiamo un set di attività omogeneo e la forma della curva ci soddisfa.

Questa analisi dovrebbe coinvolgere tutto il team e prendere pochi minuti (con l’esperienza diventerà sempre più rapida).

 

Fig.1 – Questo Cycle Time Histogram non ci piace!
Presenta più picchi (tra 39 e 43 ore, e tra 47 e 51 ore) e una coda lunga (i valori superiori a 60 ore).
Probabilmente stiamo misurando oggetti differenti tra loro.

 

Fig.2 – Questo Cycle Time Histogram invece è perfetto!
Ha un unico picco (tra 39,44 e 43,89 ore) e una coda corta (sono pochi i valori particolarmente alti).

 

Cycle Time Scatterplot – “quanto tempo serve realmente per completare queste attività?”
Dopo aver filtrato per mostrare solo dati omogenei, e abbiamo escluso tutte le attività che hanno richiesto tempi fuori scala per motivi eccezionali, usiamo il secondo grafico per affinare la risposta.
 
Il Cycle Time Scatterplot è un grafico a dispersione in cui ogni punto rappresenta un’attività completata:
● il valore sull’asse orizzontale (X) indicherà la data di completamento dell’attività,
● il valore sull’asse verticale (Y) indicherà il Cycle Time corrispondente.
 
Questo grafico ti permette di visualizzare l’andamento dei tempi di completamento nel tempo:
● se i punti sono raccolti in una fascia orizzontale compatta → il flusso di lavoro è stabile e predicibile;
● se i punti mostrano un andamento divergente → il flusso di lavoro è molto variabile e poco predicibile.

 

Fig.3 – Questo Cycle Time Scatterplot non ci piace: la media (viola) è divergente. Le linee azzurra, gialla e rosso rappresentano rispettivamente il 50° percentile (mediana, circa 49 ore), l’85° percentile (circa 57 ore) e il 95° percentile (circa 67 ore).

 

Fig.4 – Questo Cycle Time Scatterplot è perfetto! Rappresenta un flusso di lavoro stabile e predicibile, esattamente quello che vogliamo! La media (linea verde) è costante, vale circa 45 ore, e coincide con il 50° percentile (mediana, linea azzurra), mentre l’85° percentile (linea gialla) vale circa 52 ore e il 95° percentile (linea rossa) vale 56 ore. Possiamo comunicare che abbiamo l’85% di probabilità di completare la nostra attività in 52 ore e il 95% in 56 ore.

 

Lo scopo ultimo del Cycle Time Scatterplot è quello di identificare – in maniera immediata – i percentili.
 
Un percentile è una misura statistica che serve a dividere un insieme di dati, ordinati in senso crescente, in 100 parti uguali. Facciamo degli esempi:
● l’85° percentile indica la soglia temporale sotto la quale si trovano l’85% delle attività: se questa soglia indica 8 giorni, significa che l’85% delle attività ha impiegato al massimo 8 giorni;
● il 50° percentile si chiama mediana, e indica la soglia che divide l’insieme di dati in due metà uguali: una metà ha richiesto un tempo maggiore alla soglia indicata, l’altra un tempo minore.
 
Come regola empirica:
● se stiamo osservando attività critiche, per le quali abbiamo bisogno di una previsione molto accurata, possiamo considerare il 95° percentile;
● altrimenti possiamo considerare l’85° percentile come una misura affidabile.
 
Dobbiamo ricordarci che stiamo sempre parlando di misurazioni probabilistiche e basate sullo storico, non abbiamo la sfera di cristallo e non possiamo prevedere le situazioni estremamente eccezionali.
Ma sapere che – a parità di condizioni – attività come quella di cui ci interessa prevedere il tempo hanno richiesto al massimo tot giorni, ci aiuta a dare una risposta soddisfacente.
 
Storicizzare le informazioni del Cycle Time Scatterplot consente di osservare anche se il team stia migliorando o meno. Se 3 mesi fa l’85° percentile indicava 12 giorni e oggi ne indica 8, possiamo celebrare un netto miglioramento! Miglioramento dovuto, molto probabilmente, ad un flusso di lavoro meno variabile (stabile).

La velocità di un team è inversamente proporzionale al grado di variabilità del suo lavoro, e direttamente proporzionale alla sua predicibilità.
Se vogliamo andare più veloci, dobbiamo creare le condizioni per ridurre la variabilità.
 
Riepilogando:
● il Cycle Time Histogram ci aiuta filtrare le attività tra loro omogenee, restringendo il campo evitandoci di fare ragionamenti statistici su attività troppo diverse tra loro;
● il Cycle Time Scatterplot invece ci aiuta a visualizzare, sempre in maniera estremamente intuitiva, il grado di variabilità del nostro lavoro.
● la combinazione dei due grafici ci consente di dare agli stakeholder una risposta del tipo “abbiamo una confidenza dell’85% che un’attività come questa ci richieda 8 giorni di lavoro”.
WIP Aging Chart – per monitorare il lavoro in corso, ed il suo impatto
Sapere quanto tempo, probabilmente, ci metteremo… è sufficiente per stabilire la data di completamento?
Ovviamente no, se non sappiamo quando potremmo iniziare quell’attività.
 
Per questo dobbiamo avere chiaro il lavoro iniziato e non ancora finito (work in progress) e avere chiaro quando verosimilmente lo completeremo.
 
Per avere un flusso di lavoro stabile, dobbiamo – il più possibile! – evitare di iniziare nuove attività quando ne abbiamo ancora da completare.
 
Il WIP Aging Chart ci aiuta proprio ad analizzare il lavoro in corso e capire quando lo potremo concludere.
È sempre un grafico a dispersione dove, come per il Cycle Time Scatterplot, ogni punto rappresenta un’attività. Questa volta però ad essere rappresentate saranno le attività non ancora completate:
● sull’asse orizzontale (X) indicheremo gli stati del flusso di lavoro (“Ready”, “Doing”, “Ready to test”, “Testing”, “Ready for prod”, “Done”…)
● il valore sull’asse verticale (Y) indicherà da quanto tempo l’attività è in corso.
 

Fig.5 – Il WIP Aging Chart sembra difficile da leggere, ma ci si abitua presto! Sull’asse X visualizziamo gli stati del flusso di lavoro, sull’asse Y quanto tempo è passato da quando abbiamo iniziato ogni attività. Il grafico è colorato a fasce, e ogni fascia rappresenta il percentile relativo al tempo di attraversamento dello stato specifico.
La fascia verde rappresenta l’85° percentile, e – nel caso specifico – ci indica che l’85% delle attività sono uscite dallo stato “doing” entro 42 ore, da ready to test entro 46 ore, da testing entro 54 ore, da ready for prod entro 57 ore.
Possiamo dire che tutte le attività, rappresentate da crocette, che sono nella fascia verde, sono on-time, più il tempo aumenta invece più diventano a rischio. Nel grafico specifico abbiamo 8 attività che stanno rispettando l’85° percentile, 8 che sono tra l’85° ed i 95°. 1 oltre al 95° percentile. Questo ci restituisce una situazione non proprio rosea, con tante attività potenzialmente fuori SLE. Ci conviene non iniziare niente di nuovo fino a che non avremo completato le 17 attività in corso.

 

A cosa serve il WIP Aging Chart?
● consente di visualizzare quanto stanno “invecchiando” le attività attualmente in corso, per ogni stato del flusso;
● aiuta a identificare le attività che sono a rischio di non rispettare la SLE, o che già l’hanno sforata;
● aiuta a identificare attività bloccate da troppo tempo, e a capire in che stato del flusso si sono bloccate;
● consente di monitorare il livello di saturazione del sistema: tanti elementi con età elevata indicano potenziali colli di bottiglia o sovraccarico.
 
Il WIP Aging Chart è lo strumento ideale attorno al quale strutturare i daily meeting:
● guardando il WIP Aging Chart il team percorre, da destra a sinistra, i singoli stati, concentrandosi sulle attività che stanno impiegando più tempo del previsto o che sono bloccate;
● più un’attività è vicina ad essere completata, più dovrebbe ricevere attenzioni ed energie per essere conclusa.
La fiducia è solo questione di metodo
Con una metrica (Cycle Time) facile da misurare ed il supporto di 3 grafici intuitivi, la prossima volta che i tuoi stakeholder ti chiederanno “Quanto sarà pronta questa attività?” non dovrai più tirare a indovinare, affidandoti a intuizione e speranza.
Potrai rispondere, dati alla mano, qualcosa come: “Entro 8 giorni, con l’85% di probabilità” e spiegargli perché può avere fiducia di questa tua previsione.
 
Chiaramente la Service Level Expectation non è un oracolo e non elimina l’incertezza: la rende visibile, misurabile e gestibile. Ma grazie al ciclo di:
● raccolta dati (cycle time),
● visualizzazione analitica (i tre grafici),
● confronto continuo con la realtà e adattamento.
insieme al tuo team potete imparare a leggere il vostro flusso di lavoro, anticipare i rischi e dare risposte chiare agli stakeholder senza cadere nella trappola delle promesse arbitrarie.
 
Gradualmente abbandonerete le false metriche (story points, velocity…) utili solo a dare un’illusione di controllo, e inizierete a concentrare tutti gli sforzi per rendere il vostro flusso di lavoro stabile e predicibile.
 
La vera vittoria sarà vedere gli stakeholder annuire con fiducia, non perché ti sei inventato una data, ma perché gliel’hai dimostrata. Non è un miracolo, ma solo metodo.

 

 

Di Michele D’Urzo

A un certo punto della storia siamo stati proprio bravi.

Abbiamo avuto la nostra bella fetta di successo, con spalmato su anche un generoso strato di soddisfazioni.
Ma i tempi cambiano in fretta.
La situazione corrente è talmente corrente che ci sta scappando di mano.
E purtroppo non c’è modo di chiudere la porta, per interrompere questo fastidioso vento che scompiglia le nostre certezze.
Ci sentiamo minacciati, siamo consapevoli che qualcosa deve cambiare, ma non sappiamo bene cosa, oppure abbiamo in mente tante idee, ma non sappiamo da dove cominciare.
Ci occorre una strategia.
Anzi, ci occorrono le competenze strategiche per comprendere le forze in campo, orientare le nostre priorità, progettare il cambiamento ed agire di conseguenza.
In questa sede si possono solo gettare le premesse di un discorso sulla strategia, introducendo due strumenti potenti: il paradigma OODA di John Boyd e le mappe di Simon Wardley: una loro trattazione più approfondita andrebbe al di là delle ambizioni di questo scritto.

Le 4 aree di intervento
Dovendo cambiare una sola cosa tra le seguenti 4 aree di intervento, quale avrebbe la priorità?

Prodotto: il bene o servizio “flagship” che proponiamo
Mercato: a quale segmento di clientela lo proponiamo
Processo: come progettiamo, realizziamo, distribuiamo e manteniamo il nostro Prodotto
Modello di Business: come produciamo valore attraverso il nostro Prodotto

Sebbene queste 4 aree di intervento possano cambiare tutte, o più di una, allo stesso tempo, è sconsigliabile agire contemporaneamente su più fronti per il forte rischio di dissipare energia, perdendo focus e consapevolezza della situazione.

Rassicurati dalla certezza che non esiste una sola risposta giusta, possiamo scegliere la nostra priorità con relativa serenità: qualunque opzione può essere appropriata, purché attuata con determinazione, rapidità e consistenza.

Il paradigma OODA
Siamo consapevoli che i cambiamenti debbano essere introdotti in modo incrementale, altrimenti sarà difficile comprendere cosa ha funzionato e cosa no, ispezionare il nuovo assetto ed adattarlo, alla luce di un’analisi trasparente.
Il paradigma OODA di John Boyd [fig.1] non è una ripetitiva girandola di 4 fasi che si ripetono all’infinito: è uno schema iterativo, complesso e non predittivo che prevede anche automatismi impliciti e salti non sequenziali.

[Fig.1] L’OODA loop, nella sua versione autentica, non banalizzata.

Ciò nondimeno, emergono 4 funzioni fondamentali che si ritrovano in ogni pianificazione strategica (ma altrettanto valido a livello tattico ed operativo): Observe / Orient / Decide / Act, descritte di seguito.

Observe
È l’atto di acquisire la consapevolezza della situazione, del territorio che ci circonda ed i cui fattori ambientali possono condizionare l’evolversi degli eventi e delle forze (favorevoli o avverse) che stanno modificando (o potrebbero modificare) lo status quo, persino in assenza di ogni azione intenzionale, nostra o delle nostre controparti.
Orient
Per orientarci, occorre un sistema con (almeno) a 2 dimensioni, su cui rappresentare le posizioni con appropriate coordinate. Già comprendere quali possano essere le dimensioni di riferimento appropriate per rappresentare un’evoluzione strategica è un problema non banale.
A tal proposito ci potrebbe essere senz’altro d’aiuto una Mappa di Wardley che usa l’asse orizzontale per definire il livello di evoluzione dei componenti e quello verticale per la loro rilevanza.
Ci ritorneremo dopo aver trattato gli altri 2 stati dell’OODA loop.
Decide
La mappa così configurata, per una scelta di chiarezza, non prefigura scenari alternativi, ma avrebbe potuto. Invece, presentare opportunità multiple. In ogni caso, esiste comunque un’opzionalità. Da un lato decidere di rimanere nella condizione attuale, per scelta o per ignavia, dall’altro iniziare un percorso trasformativo (ogni lunga marcia comincia con un primo piccolo passo). È in questa magica transizione, dalla trasformazione in potenza, sulla carta, in azione in divenire che c’è tutta l’essenza della decisione.
Act
Agire è concretizzare la decisione, la capacità di eseguire i passi previsti con agilità, scioltezza, disinvoltura, senso del tempo, come in una danza. E come ogni danza è costantemente importante restare connessi con ciò che ci accade intorno.

La mappa di Wardley
La mappa [fig.2] ci mostra un esempio di orientamento: l’attenzione prioritaria è rivolta (nel caso di specie) ad un’evoluzione del Processo di produzione che dovrà diventare più standardizzato rispetto all’attuale modalità governata dal caso e dalle competenze del momento.

[Fig.2] Mappa di Wardley con focus sull’evoluzione del Processo

 

L’evoluzione è indicata da una freccia tratteggiata che collega il Processo Attuale al Processo Futuro.
È contenuta in una pipeline che indica la presenza di una serie di passaggi intermedi: la rappresentazione formale BPMN del processo e l’adozione di OKR.

È indicata anche la presenza di un’inerzia da superare attraverso una serie di interventi di cambiamento organizzativo.
La mappa ci racconta inoltre che il successo del Processo Futuro dipende dall’adozione di alcuni componenti critici:
Workflow Automation
• Capability Maturity Model
• Definition of Output Done a livello di organizzazione

Infine, è evidenziato il vincolo sulla necessità di far adottare ai Developer il CMM, attraverso un intervento di formazione.

 

Le 7 leve trasformative del modello MONSTER

Quando ragioniamo sulle strategie di cambiamento, non dobbiamo cadere nella “Sindrome del Martello di Maslow”, ricordandoci che esistono sempre molteplici leve per ottenere una trasformazione.
Sta allo stratega individuare, di volta in volta, quella più appropriata. A volte, nei casi più complessi, potrebbe servire un uso combinato e coordinato di più leve trasformative.

 

Nell’esempio che abbiamo rappresentato sulla Mappa di Wardley, emerge una propensione per la ricerca dell’efficienza operativa, potenziata dall’uso di strumenti tecnologici.
Avremmo però potuto scegliere altre strade, ad esempio, trasferendo i rischi e le complessità della modifica del processo, esternalizzandolo e concentrandoci quindi sulla formalizzazione dei requisiti e sulle tecniche di test e controllo qualità (V-model). 

 

Se voleste approfondire gli argomenti e avere maggiori informazioni sugli strumenti di cui abbiamo parlato, scriveteci pure a info@agilemadeinitaly.com. Vi risponderemo con piacere! 

Di Marco Passarella

 

In azienda sappiamo tanto di come funzionano gli strumenti e i processi, ma sappiamo ancora poco di come funzionano le nostre teste. Quindi come entrano in relazione tra loro e quali sono le condizioni che aiutano i cervelli a funzionare meglio.

 

Lavoro in team: cosa serve per fare una vera squadra

Parliamo sempre di lavoro in team, ma mettere sette persone in una stanza non basta per fare un team. Se pensiamo all’ambito sportivo, nessuno penserebbe mai che sia sufficiente mettere in campo undici giocatori per avere una squadra. Ovviamente serve un percorso, che può essere anche molto lungo.

E allora cosa serve per fare una vera squadra? Ciascuna delle nostre teste diventa un neurone di un cervello più grande. Come? Attraverso la comunicazione. L’interazione che scaturisce dalle persone genera cose che non saremmo neanche in grado di immaginare. Mettiamo insieme le conoscenze, le competenze e le specificità di ciascuno. Al centro c’è la sinergia: creare connessioni per arrivare a ad alte prestazioni, grazie al potere dell’intelligenza collettiva.

Per far funzionare l’intelligenza collettiva, ciascuno deve accettare di perdere il controllo. Per creare la connessione, bisogna accettare che accadranno cose che non si possono prevedere. Quindi rinunciare a controllare la dinamica di gruppo per fare un salto di paradigma. Tutto comincia con la fiducia.

 

Come si attiva l’intelligenza collettiva

Per attivare l’intelligenza collettiva entrano in gioco diversi fattori:

obiettivi chiari: sembra banale, ma spesso capita che ci si ritrovi a fare cose che non sono né chiare né condivise. Quindi la chiarezza degli obiettivi è figlia di una qualità comunicativa.

sicurezza psicologica: le relazioni sono tutelate da dinamiche che valorizzano le persone, proteggono il pensiero, non sono giudicanti. Non c’è la paura di esporsi o di sbagliare. Anche qui riusciamo ad attivare questo ambiente grazie a una buona comunicazione

knowledge sharing: quanto è difficile trovare persone che sono disposte a condividere totalmente la conoscenza? Spesso la conoscenza è uno strumento di autotutela, o addirittura di potere. Se non si è disposti a condividerla, significa che si ha un problema. Da un punto di vista aziendale è pericoloso, perché la persona diventa un collo di bottiglia.

gestione del conflitto: persone con background diversi devono imparare a lavorare insieme e far sì che il conflitto che si genera porti a un risultato produttivo.

Fin qui abbiamo parlato solo di soft skill. Che possono essere applicate a qualsiasi contesto.

 

Il potere delle emozioni nel luogo di lavoro: il ruolo del manager

La diversità è ricchezza. Ciascuno porta una unicità che non possiamo prevedere che cosa potrà generare, se messa insieme alle unicità degli altri.

In un team ci sono anche tanti stati emotivi, e le persone, stando a contatto le une con le altre, imparano ad ascoltarsi e a bilanciare questi stati emotivi gli uni con gli altri.

Le persone hanno stati vitali molto diversi, anche in base a quello che vivono nel privato.  Esplicitare questi stati, aiuta anche i compagni di squadra a supportare chi è più in difficoltà.

Quindi è assurdo pensare che basti far lavorare insieme le persone per dieci anni per avere un team. Diventano un team se si attivano tutti i presupposti di cui abbiamo parlato.

Il compito del manager è proprio questo: favorire lo sviluppo delle competenze soft nelle persone del gruppo. Si impegna per primo a conoscerle e metterle in pratica. Poi, partendo da se stesso, trasferisce queste competenze al team.

Nella cultura del management italiano abbiamo ancora la concezione che la ragione e le emozioni siano due cose da tenere separate. Guai a portare la nostra emotività sul lavoro. Mentre da anni le neuroscienze ci dicono che non c’è alcuna separazione tra i due aspetti, perché il cervello è uno, per cui i nostri processi decisionali che sembrano molto razionali, in realtà sono fortemente impattati dai nostri stati emotivi.

Non c’è bisogno di grandi iniziative per iniziare a sviluppare l’intelligenza collettiva. Prendiamo il caso di un gruppo molto numeroso, più di venti persone. Il cambiamento del team può iniziare anche solo facendo prendere alle persone il caffè insieme. Se durante la giornata le persone si organizzano in piccoli gruppi separati, sempre gli stessi, le riunioni diventano una difesa del fortino. Durante i caffè, invece, le persone vengono stimolate a mescolarsi tra loro e soprattutto a non parlare di lavoro. In questo modo è facile che si cominci a relazionarsi in modo diverso. Da individui che facevano cose, diventano persone che dialogano fra loro per raggiungere uno scopo comune.

 

Meglio lavorare su un team nascente o un team già formato da tempo?

È più facile lavorare su un team nascente che su uno che lavora insieme da tanto tempo. Se ci sono anni di dinamiche disfunzionali, bisogna prima spezzare queste dinamiche e poi ripartire. È comunque difficile lasciarsi alle spalle il passato, ci vuole più tempo ed è faticoso. Ma non è impossibile. Se si lascia il tempo alle persone di stare nel proprio cambiamento, accadono le cose più stupefacenti.

Partendo con un team nuovo, si può cominciare fin da subito ad approfondire la conoscenza a un livello più profondo. In realtà è molto semplice, tutto inizia conoscendosi, anche solo condividendo cosa ci interessa, cosa ci appassiona, cosa facciamo nel tempo libero. La parola d’ordine è apertura. Bisogna scoprire il fianco e permettere agli altri di farti del male, per scoprire che l’altro non ti farà mai del male.

In questo modo scopriamo che anche il posto di lavoro è il luogo in cui noi possiamo esprimere le nostre emozioni.

 

Gli eventi che mettono più a rischio l’intelligenza collettiva

I cambiamenti possono turbare le dinamiche di team. Per esempio, elementi che entrano o che escono. Questo è in grado di turbare l’equilibrio che si era stabilito e che si fa fatica a riassorbire.

Un altro elemento di fragilità è il non avere chiaro l’avanzamento rispetto agli obiettivi. Non sappiamo se stiamo progredendo verso l’obiettivo. Magari per mancanza di feedback chiari. Questo è qualcosa che Toyota ha scoperto molti anni fa, il fatto di rendere visivamente chiaro quanto siamo vicini all’obiettivo. Senza questa visione chiara il team si smarrisce. È come chiedere a un maratoneta “corri più che puoi”. Non funziona.

 

Cosa fare quando non tutti sono disponibili a lavorare su se stessi

L’aiuto di una figura di facilitazione esterna al team può essere la chiave di volta. Una persona esterna può creare uno spazio neutro. Anche se questo spazio è conflittuale, la neutralità aiuta a confrontarsi. Bisogna però avere chiaro qual è il contesto da osservare insieme. Non bisogna allargare troppo l’ambito a partire da quello che è successo dieci anni fa, ma ci si concentra su un perimetro specifico d’azione, si ricordano le regole di ingaggio su quel perimetro e si misura la qualità delle nostre azioni. L’attenzione non deve focalizzarsi sulle intenzioni (“avrei voluto”, “avrei fatto”) ma sulle azioni. È difficile, perché abbiamo la tendenza a trasformare i fatti in storie. Il fatto è “Sabrina e Anna sono arrivate alla riunione con 10 minuti di ritardo”. La storia è: “A Sabrina e Anna non importa di arrivare puntuali alla riunione perché sono disinteressate e irrispettose”. Il facilitatore aiuta a fare chiarezza e riportare il gruppo sui fatti. Già solo riconoscendo questa differenza si fa un grande passo in avanti. Certo è che c’è un pezzo di strada in cui ogni membro del team deve decidere per se stesso. Possiamo creare situazioni di contesto per invogliare le persone a salire a bordo. Ma esiste sempre il libero arbitrio. Le persone sono sistemi complessi, che non possiamo gestire, ma governare. Questo significa anche restare aperti alla possibilità che possa non funzionare per tutti.

 

E se un elemento del gruppo decide di opporsi del tutto alla direzione in cui sta andando il team?

Un primo tentativo può essere chiedere direttamente alla persona che cos’è che potrebbe fargli venire voglia di salire a bordo. Regole diverse, responsabilità diverse, lavorare con altre persone, o anche far parte di un altro progetto. È chiaro che la persona potrebbe dire che non le importa niente. A quel punto la vera domanda è “Siamo sicuri che quella persona faccia ancora parte del team?”. A questo punto si può organizzare una riunione di team per ricondividere gli obiettivi. Per esempio, si può partire dal condividere ognuno i propri obiettivi individuali e vedere in quale misura possano essere compatibili con quelli di team, in modo da escludere eventuali conflittualità. Anche se la persona non dovesse dimostrarsi partecipe di questo progetto, per lo meno la squadra è consapevole di aver messo in atto tutto ciò che era in suo potere per includerla nel suo percorso. A quel punto la persona andrà gestita esternamente. Semplicemente non possiamo obbligare qualcuno ad aderire a qualcosa che non vuole. Da quel momento però cambia l’obiettivo: non si cerca più di far salire a bordo la persona non in sintonia, ma trovare una soluzione di compromesso per cui il suo mood non comprometta il resto della squadra.

A volte la persona semplicemente non è consapevole del fatto che con il suo agire sta inquinando la relazione che c’è tra tutti gli altri. Magari è una persona che non saluta, che risponde sempre in modo netto, non ringrazia mai, e così via. E non si rende conto che tutto questo ha un impatto sulle emozioni degli altri e sul clima del gruppo. In questo caso un passaggio significativo potrebbe essere quello di fargli vedere qual è l’impatto del suo modo di relazionarsi all’interno della squadra.

 

Consigli di lettura per approfondire l’intelligenza collettiva

Da dove nascono questi pensieri sull’intelligenza collettiva? Principalmente da tre libri: “Sfruttare l’intelligenza collettiva”, di Véronique Bronckart, “Facilitare i gruppi”, di Stefano Centonze e “Niente teste di cazzo” di James Kerr, che ha raccontato la storia degli All Blacks. Quest’ultimo parla delle dinamiche di team, soprattutto evidenziando cosa non è accettabile. Quindi parla degli anticorpi che deve sviluppare un team per ottenere l’intelligenza collettiva, che servono non solo per raggiungerla, ma anche per difenderla nel tempo. Perché le relazioni tra i membri della squadra possono essere anche molto fragili, e perciò hanno bisogno di una cura continua.

Di Riccardo Ciocci

 

Cosa si intende per servant leadership?

“Una filosofia di leadership in cui l’obiettivo del leader è servire. Diversamente dalla leadership tradizionale in cui l’obiettivo principale del leader è la prosperità della propria azienda o organizzazione. Un leader servente condivide il potere, mette al primo posto le esigenze dei dipendenti e aiuta le persone a svilupparsi e ad ottenere prestazioni il più elevate possibile”.
Questa è la definizione di servant leadership data dalla pagina inglese di Wikipedia.
Appena si legge questa definizione il primo pensiero è “che bello sarebbe avere come capo una persona del genere”, il che rende la figura del servant leader simile a quella dello Yeti: tutti ne parlano, alcuni dicono di averlo visto, ma per la scienza non ci sono prove della sua esistenza.
E quindi la prima domanda che ci si pone è: il servant leader esiste?

 

Servant leader: un bisogno primordiale

Per rispondere a queste domande ci viene in aiuto un testo di Simon Sinek, scrittore, noto motivatore e consulente di marketing inglese: Leader at Least (Ultimo viene il leader) del 2014.
Il tema da cui partire è che il servant leader non è una scoperta, ma una riscoperta.
Sinek espone in maniera analitica quali sostanze producono piacere nella specie umana. Esse sono quattro, nell’ordine: endorfina, dopamina, serotonina e ossitocina.
Le prime due sostanze sono in comune con moltissimi altri esseri viventi e sono prodotte dai risultati che vengono raggiunti individualmente. Esse riguardano unicamente noi stessi e ci danno la forza di raggiungere degli obiettivi che ci prefiggiamo.
Le ultime due invece sono uniche della razza umana, si sono sviluppate insieme alla neocorteccia all’epoca degli homo sapiens e ci danno il piacere nello stare con gli altri. Ci danno la sensazione di essere gratificati dai complimenti dell’altro, e ci danno la soddisfazione di aver aiutato una persona cara.
Citando testualmente:
“L’ossitocina però non ha il solo scopo di farci sentire felici. È anche vitale per il nostro istinto di sopravvivenza. […] È grazie all’ossitocina se riusciamo a fidarci di un altro nel momento in cui costruiamo il nostro business, facciamo qualcosa di difficile, dobbiamo uscire da un momento di crisi. È grazie all’ossitocina se siamo sensibili ai rapporti umani e ci piace stare con quelli che amiamo. L’ossitocina fa di noi degli animali sociali.”
Queste parole ci danno la giusta dimensione di quanto lavorare in team con persone con cui abbiamo un rapporto di fiducia sia un bisogno insito nel genere umano. Spesso, infatti, chi lavora a contatto con il pubblico, una volta finito di lavorare preferisce passare del tempo in solitudine. Al contrario chi svolge un lavoro che manca di relazioni con altri, queste vengono ricercate fuori dall’ambiente lavorativo. È una questione di equilibrio tra le quattro sostanze.

 

Agile, Scrum e Servant leadership

Ci sono diverse realtà che cercano di seguire la rotta della leadership servente e Sinek ne illustra diverse che nel corso degli anni si sono distinte per questo nel panorama americano, ma possiamo fare un ulteriore passo avanti: l’apertura all’errore, la collaborazione, la condivisione delle conoscenze sono concetti molto familiari per tutte quelle aziende che stanno applicando l’Agile Manifesto e il Framework Scrum.
All’interno dello Scrum Team possiamo infatti rilevare la presenza dello Scrum Master, ovvero di un leader a servizio del team, che supporta la squadra senza acquisirne il comando lavorando sulla fiducia (del team e dell’organizzazione in generale), sulla gestione dei conflitti, sulla comunicazione, oltre che sulla diffusione della cultura Agile e del framework Scrum.
Non per questo dobbiamo essere indotti a pensare che un servant leader sia possibile solo attraverso i framework Agile.
Come detto tante aziende sono riuscite a creare un clima di fiducia reciproca anche senza l’utilizzo di Scrum.
Ma di sicuro ora possiamo dare una risposta alla nostra primissima domanda:
Sì, il servant leader esiste.

 

Creare il cerchio della sicurezza

Nel privato come nel lavoro c’è bisogno di instaurare dei rapporti autentici, relazionali e professionali; non si tratta di amicizia ma di ciò che Sinek definisce “cerchio della sicurezza”.
In un gruppo di gazzelle quando la prima gazzella avverte il pericolo di un leone che sta per attaccare e inizia a correre, tutto il branco inizia a scappare insieme a lei. Nessuna gazzella mette in dubbio il perché la prima ha iniziato a correre, ognuna sa che c’è un pericolo e si fida del comportamento della compagna.
In un “cerchio della sicurezza” le cose accadono allo stesso modo. Ogni elemento nel cerchio tutela se stesso e ogni altro membro del team, con la certezza che anche gli altri faranno altrettanto.
L’obiettivo è allargare il cerchio della sicurezza affinché non riguardi solo il team di lavoro ma possa includere l’organizzazione nella sua interezza.
Come fa il servant leader a lavorare al cerchio della sicurezza?

Mantenere il contatto con la realtà. Tenere unite le persone.
Per quanto possano essere utili e funzionali i contatti che manteniamo con chat o mail, niente può sostituire l’incontro faccia a faccia (sesto principio dell’Agile Manifesto).

Gestibilità. Obbedire al numero 150[1].
Ricordare che una persona non può mantenere dei rapporti basati solidi, basati sulla fiducia con più di centocinquanta persone. Il lavoro da remoto non aumenta questo numero[2].
Il top management se vuole che i dipendenti si sentano all’interno di cerchi della sicurezza nel proprio posto di lavoro, deve far in modo che il personale massimo in una sede non superi questo numero.

Incontrare le persone che si devono aiutare.
Incontrare personalmente i dipendenti o i membri del team contribuisce ad alimentare la motivazione.

Dare tempo e non solo soldi.
Un vero leader viene riconosciuto come tale quando è disposto a dedicare alla propria squadra l’unica risorsa che non può essere rigenerata: il tempo.
La riconoscenza e il senso di appartenenza di un membro rispetto al resto del team, sarà tanto maggiore quanto più tempo si sarà speso in tal senso.

Pazienza. La regola dei sette giorni e dei sette anni.
Quanto tempo ci vuole per creare il rapporto di fiducia tale da creare il “cerchio della sicurezza”?
Io non lo so, ma Sinek scrive che ci vogliono più di sette giorni, ma meno di sette anni.

La cultura aziendale gioca un ruolo determinante anche in termini di competitività e in un mondo sempre più complesso caratterizzato da veloci cambiamenti, chi di noi non vorrebbe un cerchio della sicurezza in cui lavorare?
Spazio quindi alle relazioni umane sane, solide e ben orientate: il leader che smette di guidare e si pone al servizio ha la grande opportunità di contribuire a costruire una nuova cultura organizzativa.

 


 

[1] Sinek riporta alla base la legge di Dunbar che riporta l’impossibilità dell’uomo di mantere più di 150 relazioni stabili. Citando testualmente: “Robin Dunbar, antropologo inglese e professore al Dipartimento di Psicologia sperimentale di Oxford […] ha dimostrato che una persona non è in grado di gestire più di centocinquanta relazioni dirette alla volta con I propri simili. ‘In altri termini’, come piace dire a lui, ‘si tratta del numero di persone con cui non vi sentireste imbarazzati a sedervi a bere qualcosa senza essere stati invitati se vi capitasse di incontrarle in un bar.”

 

[2] L’autore riporta le conclusioni di un esperimento fatto dal giornalista Rick Lax su wired.com nel marzo del 2012 raccontato in un articolo dal titolo: “Dunbar’s Number KIcked My Ass in Facebook Friends Experiment.”

Sinek scrive: “Molti hanno creduto che, con l’arrivo di Internet, il numero di Dunbar sarebbe diventato obsoleto. Che saremmo stati in grado di comunicare simultaneamente con tante persone e avremmo potuto gestire in modo efficace un numero superiori di relazioni. Ma I fatti dimostrano che non è così. La partita la vince di nuovo l’antropologia. Possiamo avere anche 800 amici su Facebook, ma è improbabile che li conosciamo tutti personalmente, così come è improbabile che tutti e ottocento ci conoscano personalmente. Se vi sedeste e provaste a contattarli uno per uno, come ha fatto Rick Lax, un giornalista di wired.com, vi accorgereste subito che il numero di Dunbar è sempre valido. Lax si è stupito nel constatare quanto fossero pochi, tra I suoi oltre duemila ‘amici’, quelli che effettivamente conosceva e che conoscevano lui.”